L'anziana signora, all'ombra della chiesa degli Almadiani, canta a squarciagola il testo dell'inno d'Italia, mentre le note rimbombano in una piazza assolata e piena di colori. Il ragazzo di colore la osserva di sottecchi. Un altro signore, con i baffi ingialliti dal tabacco, mima con le labbra il testo e guarda verso il cielo piccioni che si inseguono. Nello stesso momento, sotto il sole della mattina si stagliano baschi azzurri, amaranto, gonfaloni e labari di associazioni d'arma e combattentistiche. Anziani, in maggioranza, signore ben curate e nostalgici con nipotini in braccio. Un centinaio di persone, di fronte ad un palco improvvisato, ai discorsi di rito, alle divise da cerimonia, ai corpi armati e ai rappresentanti dello stato. Le parole sono di fiducia, di speranza. Gli unici giovani sono i componenti del coro e dell'orchestra, vestita di nero, di fronte al monumento ai caduti. Di nero sotto il sole, ci stanno perché devono, non perché vogliono.
La piazza sembra troppo grande per la speranza di quelle parole, addirittura immensa per quei pochi che ancora conoscono il significato di questa data e di cosa è servito per ricordarla. Ci si aspetta che sia piena. Non lo sarà più, almeno per ora.
Perché per capire il senso di questa festa e il termometro di questa nazione, basta guardare dentro la fontana, monumento ai paracadutisti che identifica la piazza stessa.
Una pozza di liquame, sporca, torbida. Senza luce. Ocra.
Come invitare ospiti a decantare virtù, nascondendo la polvere sotto il tappeto.
Solo che qui, è tutto sotto la luce del sole. Di uno splendido sole.
Buon compleanno Italia. Magari senza parole. Solo con i fatti.
